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RIVISTA DI CULTURE DI FRONTIERA

Il poeta tuareg: Mahmoudan Hawad

Posted by paolo fichera su dicembre 8, 2009

Mahmoudan Hawad. Biografia e poesia
a cura di Marco Ribani

Scrittore e pittore tuareg, nato nel 1950 in una famiglia nomade a nord di Agadez, in un accampamento della tribù Ikaskazen, appartenente alla confederazione dei Kel Aïr (l’Aïr è un massiccio montuoso situato al nord ovest dell’attuale Niger). Sua madre e sua zia lo allevarono secondo la tradizione tuareg che egli distingue scrupolosamente dall’educazione islamica per la quale nutrirà un odio profondo per tutta la sua infanzia. Definisce l’educazione tuareg non solo come l’apprendimento della vita nel deserto, della transumanza, della conoscenza e classificazione delle specie (vegetali e animali), ma anche come l’apprendimento di una cultura trasmessa attraverso cicli di racconti molto elaborati, cinque cicli in tutto, di cui l’ultimo tiene insieme il tutto. Impara il dominio sulle parole accompagnando suo nonno alle riunioni politiche (chiamate “asagawar”) e partecipa con sua madre e lo zio materno agli “ahal” le veglie che sono allo stesso tempo scuole di teatro, filosofia e poesia. Oltre a due romanzi, Hawad ha pubblicato una quindicina
di opere poetiche.

Houles des horizons disegni tuareg su lettura Hawad

Attraversando il crepuscolo
Tra la notte e la luna,
passano gli uomini aghi
che l’insonnia ricuce.
Tra la notte e le tombe,
camminano gli uomini.
Tra la luna e l’ombra della palma,
passano gli uomini della penombra, sogno,
uomini che portano a spalla un fucile
e la rete delle strade e dei canti,
uomini rami del loro sogno,
uomini che calzano i ciottoli,
uomini che risalgono la notte
sul campo della notte,
uomini miscuglio di barba e rivolta,
braccia d’uomini,
passano e seminano aurore,
fruste che fustigano i giorni.
O uomini resistenti
Che attraversano il crepuscolo!
Uomini,
ormai siete braccia dell’aurora
e albero del giorno.
Uomini
Non dimenticate le donne,
radici e cime del giorno.

Animale da torchio,
tendiamo la corda della resistenza
tra i deserti e le montagne
sulle reni e le vertebre
di dune e ciottoli.

Mi chiedi cosa ne è del pozzo?
Il pozzo è il nostro sguardo abisso.
Maledette tutte le città e le prigioni
che sbarreranno la strada
alle nostre grida di assalto,
slancio di felini
che spiccano il volo-fulmine.

Tu, l’ingegnere di non so quale imbroglio,
ora ti conosco!
Sei tu il cervello senz’anima
Dei computer della banca mondiale.
Vedo anche te
il suo doppio, il suo complice,
la chiave delle casseforti del FMI.
O voi che avete speculato sull’esclusione
dei miei scheletri vivi di fratelli
smembrati e gettati dalle spalatrici
come un mucchio d’ossa sulle discariche,
a colpi di decreti annunciati alle folle
di Stati bananieri e dei loro capi cannibali
che li osservano con l’acquolina in bocca,
sì, voi, non vi preoccupate.
Ci berrete,
noi, il cancro e il suo aids assetato,
nella tempesta di sabbia
e nelle ceneri delle nostre terre
che non temono gli uragani della borsa.
Ehi tu, l’ex-maestro coloniale tramutato in conquistador,
e tu l’ex legionario, e tu l’ex prete
della pacificazione castrazione dei nostri,
e tu l’ex-ruffiano riformato per essere Gestapo,
tutta un’epoca di ex sessi gonfiabili,
vi taglieremo i popliti e i nervi
della virilità.
Che tu sia maledetto, fratello nostro,
tu, l’orecchio-gola di pappagallo
ridotto a essere mercenario.
Sì, è a te che parlo,
apprendista cuoco di tutte le salse bollite
dove si consumano a fuoco lento i tendini duri di tua madre,
tu, domani, ancor prima che il pestello dell’aurora
abbia triturato la notte perché nasca il giorno,
noi ti metteremo una ventosa sul cranio
e ti faremo sposare il cadavere furioso
di un’adolescente ribelle.

E voi laggiù,
al mercato di Timbuctù, d’Agadez,
di Ghat, di Tamanrasset,
sugli stracci dell’esotismo
e i pezzi di filo spinato degli Stati spretati,
dal concerto dei razzi e delle mitragliatrici,
noi vi faremo ballare il nuovo tango alla moda,
il tango di tutti gli ombelichi vorticosi,
la marcia dei combattenti che si dondolano e vacillano
e cadono e si rialzano
e s’inginocchiano per balzare di nuovo,
e, come fionda, roteare,
gridare, tendersi e rialzarsi,
schizzi di sangue e bava fusa di proiettili,
rame e bronzo in fusione che seminano il lutto,
opera dei vostri tecnici.
Notte e crepuscolo,
mezzogiorno e aurora,
o palpiti esitanti,
lampeggiare epilettico del giorno morente
come un uccello nelle nostre mani,
oh deserto,
da tutti gli angoli della tua vista, tu ci conosci
e noi abbiamo bevuto la luce del tuo sguardo
fino a inghiottire il proiettore delle tue pupille.
O sole, dà vita alle nostre madri combattenti
Che s’impennano ululando, frenesia,
e spezzano il recinto del loro ventre, fardello piegato
dalla carestia, la sete e la sterilità,
per calpestare il pomo d’Adamo della morte.

Sotto il volo dei rapaci,
le madri, le nostre madri, cavalli delle dune,
s’impennano sul dorso scivoloso del caos.
Oh, madri ribelli,
le nostre madri, pilastri
sotto la tempesta degli avvoltoi,
braccia delle nostre madri tese verso il cielo
che prolungano il nostro assalto.
Lode alle madri,
le nostre madri con le mani nude,
armate del cordone ombelicale degli aborti,
i nostri fratelli effimeri
che dissuadono il cielo di abbattersi sul vento.
Vento gemito delle vette
anche tu sei diventato noi.
Vedi come prendiamo le armi
non solo dagli artigli dell’avversario
ma anche dalle braccia dei nostri fratelli precoci
che non sono potuti maturare nove mesi
ma che già, con il loro vigore,
arrosto ovale di cannone,
hanno lacerato la cavità del ventre delle loro madri.
Corde e cinture dei nostri resistenti,
pergamena ruvida, prole delle madri,
o figli, che non avete potuto rifugiarvi
nel seno delle vostre madri
e nemmeno nel ventre della terra,
assimilati dai mitragliatori di Parigi.

Compagno, eco dei nostri gemiti,
se domani quelli della BBC ti domandassero
chi arma la resistenza del sud della barberìa,
urla nel lobo delle loro orecchie:
– sono gli amministratori del FMI
e della banca di Francia
soprattutto quando ci costringono a mangiare
il cadavere dei vecchi e dei bambini,
dei genitori e dei fratelli.

Per la santità,
cervello e sterco della mia asina,
giuro a te, fratello mio,
triste gufo solitario, compagno,
ti giuro che ci restano ancora
le mammelle di fuoco della parola
per nutrire la resistenza
delle cause del mondo
già perse.

Non accetterò nessuna profezia,
nessuna luce, tenebre o grigiore,
soltanto lo guardo rosso e feroce
d’un resistente esausto
che continua a proiettare il suo veleno
sullo sguardo dei vostri dei.

Una resistenza dalla voce velata
è una bomba atomica.
La offro a tutti coloro
che desiderano frantumare il cervello
dei loro dei.

I nostri cadaveri, che han ricevuto più volte il colpo di grazia,
i nostri cadaveri che a causa del diktat
dei carri armati e dei decreti
non sono stati resi
al ventre della terra,
i nostri cadaveri sono esplosivi
e li lascio a tutti gli esclusi
dall’eredità delle banche
di questo mondo.
I nostri cadaveri sono esplosivi.
Per ogni popolo assassinato sulla sua terra,
non ci sono armi più sicure
del divieto di rendere i suoi martiri
al ventre della terra.
Tutti gli altri bagagli della resistenza,
sono i voli degli avvoltoi
che li distribuiscono nel vento
come l’allergia epilettica e contagiosa
della violenza.

Voi, brava gente,
immaginate tutto un popolo,
un popolo per il quale i suoi fantasmi,
come formiche,
lavorano notte e giorno.

(Tradotto dal tuareg (tamajaght)in francese dall’autore e da Hélène Claudot-Hawad e dal francese in italiano da Angela Biancofiore)

Io vago errante
Io vago errante, io sono folle, nudo,
elegante, faccio smorfie, sorridente
dietro la polvere della carovana
che risale dal deserto verso l’oasi
dove sgorgano le sorgenti dell’Unità.

O mie cavalcature
nate il mio stesso giorno,
io ho lasciato le provviste per il viaggio
a quelli che non sanno fare a meno
del latte della loro madre.

La mia ombra si moltiplica
nello specchio dei miraggi.
Sete.
Mi sfiora il volteggio
delle aquile dell’ultimo respiro.
Il sole calante arrossa
i miei orizzonti.
Sangue.

Io non ho paura della morte,
non ammiro affatto la vita.
Niente mi turba, tranne queste piccole farfalle
svanite sulla loro rosa d’amore.

Non c’è per me altro punto d’arrivo
che la stella della mia follia.
Quando il velo della fatica mi avvolgerà
io cadrò sulla sabbia,
granello tra i granelli.
Come guanciale
la mia mano che rivela
i sogni di prima ch’io esistessi.
Come compagno
il silenzio in cui trova riparo
il respiro di ogni creatura.

Di scritti e di parole
io non conosco l’ombra,
perché mia madre non m’ha insegnato altro
che interpretare l’incresparsi della sabbia
dove scompaiono la tracce di ogni vita.

Un tetto io non ce l’ho
per poterlo rimpiangere.
La tenda della realtà
si trova oltre il bivacco delle stelle
che corrono verso altre vie lattee.
Il giorno in cui tremerà la terra
chi si trova abbandonato al suolo
si rialzerà.

Quando il mio corpo cadrà sfinito
seppellitelo laggiù, sotto la duna,
il midollo farà da humus.
La mia anima partirà gridando come un cammello
verso gli oceani
di cui nessuno custodisce gli accessi.

(Da: Hawad, “Carovana della sete”, Ignazio Maria Gallino Editore, Milano 2001)

Al figlio del nomade
Calza i tuoi sandali
e cammina sulla sabbia
che nessuno schiavo ha mai calpestato.
Sveglia la tua anima
e bevi alle sorgenti
che nessuna farfalla ha mai sfiorato.
Dispiega i tuoi pensieri
verso le vie lattee
che nessun folle ha osato sognare.
Respira il profumo dei fiori
che nessuna ape ha mai corteggiato.
Allontanati dalle scuole e dai dogmi:
i misteri del silenzio
che il vento rileva alle tue orecchie
ti bastano.
Allontanati dai mercati e dalla gente
ed immagina la fiera delle stelle
dove Orione allunga la sua spada,
dove sorridono le Pleiadi
intorno alla fiamme della Luna,
dove neppure un fenicio ha lasciato le sue tracce.
Pianta la tua tenda negli orizzonti
dove nessuno struzzo ha pensato di celare le sue uova.
Se tu vuoi risvegliarti libero
come un falco che plana nei cieli,
l’esistenza ed il nulla sospesi
alle sue ali,
la vita, la morte.

***
Un occhio alla poesia del nomade
di Marco Ribani

“L’obbiettivo non è quindi quello di rovesciare il re, che rappresenta la morte, e prendere il suo posto, ma semmai quello di mettere la vita al posto del re.” Marco Ribani

Uno sguardo superficiale potrebbe indugiare sull’aspetto per così dire, pittoresco, del poeta performer Hawad, ma il mondo da cui nasce la sua poesia è invece molto complesso, radicato nella tradizione, elaborato secondo un preciso riferimento religioso filosofico, creato con atti che si inseriscono appieno nella modernità dell’arte. Tre, mi pare, sono le parole chiave per spiegare sinteticamente il mondo di Hawad: Nomadismo, Corpo, Poesia.

Nomadismo

Dice Hawad in una sua importante intervista: “La Mecca è il nome musulmano di Certezza. Il pellegrino è, per certi aspetti, un nomade che compie un viaggio, trova la Certezza e smette di cercare. Il vero nomade non va alla Mecca perché egli è il tempio di se stesso. Chi ha scelto la strada del nomadismo porta avanti un percorso dove tutto è mobile e gratuito, lungo questo percorso si impara a camminare e a divenire lo spirito del vagabondaggio. La mente del nomade è vagabonda come lo è il suo pensiero. Per il nomade, il pensiero esiste solo quando è in marcia o quando canta; tutto ciò che è nomade deve essere cantato o in cammino per essere veramente tale. Dio non esiste come figura sedentaria. Dio è lo spirito e quindi è nomade. E il nomade lo incontra nella sua ricerca di perfezione, e in questa ricerca dello spirito il nomade compie azioni, trova organismi, forme, compie atti e gesti che gli permettono la fusione con lo spirito. E qui che il nomade incontra la via del sufismo che è innanzi tutto l’eliminazione di qualsiasi intermediario fra l’individuo e Dio. Il fine è agire come un’estensione di Dio. Essere Sufi significa praticare l’alterità e attuare i quattro punti fondamentali che sono:

Primo: sapere che esiste una cosa
Secondo: vedere una cosa
Terzo: essere in una cosa
Quarto: diventare la cosa

Essere Sufi è anche servire ed aiutare gli altri, e non semplicemente star seduto a pregare. Essere un vero Sufi vuol dire rialzare chi è caduto, asciugare le lacrime di chi soffre, accarezzare l’orfano e chi non ha amici. Ma significa anche combattere le origini di questo male.

Il corpo del poeta

Per comprendere appieno la rilevanza di Hawad come poeta interculturale, occorre tenere ben presente che la poesia tuareg, pur sotto i colpi durissimi della globalizzazione e dell’aggressività degli stati che circondano il loro territorio, è a tutt’oggi una poesia vitale, che gode di continui e significativi apporti dalle nuove generazioni. Hawad bambino conosce la poesia della tradizione e la pratica precocemente. Ma quando è in condizione di maturare un proprio linguaggio si accorge che gli sarà possibile esprimersi compiutamente solo compiendo una drastica e dolorosa operazione di straniamento, che pur non essendo eretica rispetto agli insegnamenti Sufi, sta ad indicare la via più difficile e pericolosa, quella di divenire lo sciamano di se stesso. Decide allora di assumere due comportamenti: da una parte il guerriero sciamanico, il guerriero resistente tuareg che combatte una battaglia fisica e dall’altra un combattente psichico che afferma nei fatti la costanza della propria ricerca. Questi due aspetti formano il corpo del poeta che è un altro rispetto all’uomo Hawad e con il quale bisogna fare i conti perché esige di essere servito dalla passione e non il contrario, come l’uomo Hawad ogni tanto vorrebbe. Questo è un lavoro di grande autoanalisi che utilizza la forza del guerriero tuareg e la unisce al guerriero mistico che non combatte con le armi, ma con il pensiero.

Poesia

È da questi concetti che nasce la poesia di Hawad. Che dice. “Quando parlo di poesia non posso divorziare da questi concetti ed è da questi che faccio e costruisco la mia poesia. Io e le mie azioni costituiamo il laboratorio di ricerca, perché le parole finiscono, ma l’Atto rimane.”
In questo senso l’Atto che si compie, sia esso un aforisma, una poesia o un suono selvaggio, un gesto calligrafico, una danza strana, non è uno strumento di comunicazione perché non è diretta all’altro, ma ad un Altro se stesso. Ed è per questo che ogni Atto va visto come un mattone che serve alla costruzione di un altro pensiero. Dice Hawad: “Non me ne frega niente di dare alle persone una dose di estetismo, né di pretendere che gli altri pensino o sognino i miei stessi pensieri e i miei stessi sogni. Non ho bisogno di sudditi o schiavi. Nell’Atto io fornisco gli strumenti per comprendere il mio pensiero, ma in un modo che ciascuno possa fare da sé nella costruzione di un proprio pensiero. Ecco perché le mie Furigrafie (espressioni di rabbia e collera) sono la stessa cosa delle mie poesie o delle azioni che compio. La poesia del nuovo secolo non può che essere uno strumento per combattere. Dice Hawad: “La poesia deve essere oggi una sorta di guerriglia contro l’anomia, contro l’impensabile, contro il ventre, contro la logica dello stomaco per entrare nella logica dello sguardo. Ma, nel contempo, la poesia deve condurre anche una guerriglia contro se stessa, per trovare la propria lingua, come vera espressione della materia vivente.”
Per Hawad la poesia deve essere come un guerriero che indaga un nuovo linguaggio per il nostro dolore, e ci strappa dalla nostra frustrazione. Una poesia che amplia la visione di uomini e donne per mostrare un altro orizzonte, utopico, come un magnifico bianco inaccessibile, ma accessibile al tempo stesso. E d’altra parte, riflette Hawad: “ Come far fronte a questa realtà in cui ci troviamo? Per me, la rivolta è tanto necessaria quanto totale. Si tratta di una protesta e una reazione violenta contro la dominazione e l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Violazione dell’ordine delirante, della incapacità e della difficoltà.”
Ma per Hawad la rivoluzione concepita a tavolino come esecuzione cinica di un’ideologia non è altro che una bugia. Per lui la rivolta si attua in una forma permanente e totale di trasgressione. La stessa vita quotidiana è la trasgressione del dogma della morte, del processo di dettatura della morte. La morte è un dogma dalla nascita, ma la vita non è un dogma è una negoziazione di tutti i giorni. Per questo che la rivolta in tal senso è fondamentale, perché la vita è così, trasgredisce i limiti della vita per trasformare l’assurdità della morte. Per Hawad anche la rivoluzione è importante, se la condizione è quella di seguire la regola di trasformare le cose, che non determina una situazione in cui c’è qualcuno che viene a trovarsi in una situazione di vantaggio che crea il potere. La rivoluzione è un processo che deve continuamente trasformare e alimentarsi nella vita quotidiana. L’obbiettivo non è quindi quello di rovesciare il re, che rappresenta la morte, e prendere il suo posto, ma semmai quello di mettere la vita al posto del re.

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