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RIVISTA DI CULTURE DI FRONTIERA

JUS il Giusto nel suo mondo – Simone Pellegrini

Posted by paolo fichera su giugno 18, 2010

“Un vento di bêtise soffia ora sul mondo” Gustave Flaubert

Personale di Simone Pellegrini
“JUS, il Giusto nel suo mondo”
catalogo con testi di Luigi Cerutti e Adriana Polveroni
Inaugurazioni:

05.06 Galleria Cardelli&Fontana, Via Torrione Stella Nord 5,Sarzana (SP)

www.cardelliefontana.com

17.06 Galleria Giacomo Guidi artecontemporanea, Vicolo Sant’Onofrio22/23 Roma

www.galleriagiacomoguidi.com

Intervista a Simone Pellegrini di Sara Vannacci
08.03.2007
da qui

Sara Vannacci: Anche se la tua arte si può definire pienamente matura tu sei un artista a tutti gli effetti molto giovane.C’è stato un momento fondamentale nei tuoi primi anni di carriera che ti ha influenzato particolarmente e ha contribuito ad indirizzarti verso la tua produzione artistica attuale?

Simone Pellegrini: Niente che si collochi all’inizio della carriera.
A determinare il quanto del principio è un “levato”.
Quando si comincia in assenza si diventa tacitamente complici della stessa al punto da fare di se stessi i costruttori e i sottrattori dell’elemento aggiunto. Niente che si possa definire realmente fondante ha una valenza positiva tanto da indurci ad immaginare una sua originaria processione verso di noi. Quel che ci inizia alla storia è la recessione del solo elemento che finirà con l’indurci al reale. A noi corre l’obbligo di ricondurre incessantemente questo frammento nel punto interstiziale tra immaginario, simbolico e reale (tenendo in considerazione la suddetta propensione dello stesso verso questo ultimo tropo) pur di darci l’illusione di poter stringere il nodo che siamo.
Proprio riguardo al negativo che insiste da sempre, noi sappiamo (almeno da quando alcuni si sono dati il pensiero di dimostrare la coesistenza di macro e micro pur nella non condivisione delle medesime leggi) che il suo “salto” nell’aldiqua del visibile è dato solo nella moltiplicazione.

S.V.: Sono rimasta molto colpita dalla coerenza tematica e formale del tuo lavoro di questi ultimi anni. Quando i più tendono a variare, cercando di stupire con la spettacolarizzazione della propria ”evoluzione” stilistica, tu resti ancorato a questo medium molto semplice, e per semplice non intendo banale. Cosa ti ha affascinato per prediligere il disegno su carta, nelle sue innumerevoli variazioni tematiche?

S.P.: I materiali sono semplici ma essenziali allo scopo.
La materia è una lusinga che finisce con il perderti.
La rappresentazione. Una messa in scena che teatralizzi i presupposti dell’individuo, che disponga i solecismi fino a far vacillare la silloge che l’essere non è. Qualcosa che sia tra i teatrini di Camillo e lo spazio della crudeltà vagheggiato da Artaud. Un rituale questo che serve a recuperare quanto di improprio ci sostanzia a nostra insaputa, che sia utile a rifondarci tanto quanto a disperderci.
Se prima l’unità era un postulato ineludibile ora i segni mi dicono che l’uomo è un possesso, che egli è tornato ad essere un possesso e che lo spazio da Sofocle a Foucault è la distanza trasversale di una storia della pienezza e dell’interezza fortemente voluta ma supportata da nulla.
Ritornare quindi con un salto dall’empireo alla bordura di un vulcano per un’empedoclea che ci restituisca al cosmo se necessario. Elia ed Empedocle. Queste due figure sono due estremi tesi da una identica forza. Rapito,il primo, si eleva uno e circonfuso da fiamme celesti. Il secondo spinge se stesso sul fondo restituendosi ad una dispersione elementare. Questo è come quel saltare dalle proprie costole, in un delirio panico e oltre il gigantismo alla Majakovskij.

S.V.: La semplicità formale si contraddice nell’estrema profondità ed erudizione dei contenuti. L’ancestrale il totemico ritornano in ogni tua opera,come valori di un passato universale che accomuna ogni uomo. Ma non ritieni che sia una concezione un pò elitaria dell’arte? un’arte che non lascia trasparire il contenuto a chi non conosca il mito e il soggetto raffigurato?

S.P.: Un’operazione mitopoietica. E’ di questo che si tratta.
Rifondare di continuo. Accertarsi di continuo che quel che ci profila sia utile anche a definirci. Il problema del confine appunto. E’ probabile che ogni elemento aggiunto, scovato o costretto ad informarsi al fine di significare all’interno
di una sintassi, una nuova, ingombrante idea, non sia altro che una verifica di ampliamento di campo. All’interno di queste vedute si evidenzia la propensione dei vari elementi non solo ad articolarsi fra loro ma finanche a confondersi con quanto gli si prospetta. Qui la cedevolezza della bordura apre alla metamorfosi fino a disporre in soluzione quanto
risulta da ogni nuovo processo. E’ all’interno dei motivi metamorfosati che appaiono per la prima volta elementi, particole metonimiche che attraversano i composti come fossero vettori negativi, braccia straniere atte a rapire, promesse o minaccie che intersecano, che incrociano il positivo colto tanto nell’indifferenza quanto nella consapevolezza del suo statuto effimero.
Ed è proprio il nuovo spazio conquistato ad essere animato da quel che alla forma risulta come un’insinuazione che s’invisa quale alterità costretta alla connotazione prima dell’offesa.
Alla vettorialità dei negativi e alle forme isolate in cui praticano i loro attraversamenti fanno da contraltare “cittadelle”, fortificazioni in cui una parte ha fatto della moltiplicazione di se stessa un motivo.
Si tratta di isole su cui aleggia un sospetto di autosufficienza.
La redistribuzione semantica che induce ad una nuova intuizione dello spazio così come del pensiero verrebbe allora a coincidere con un riassestamento della psiche.
Questa cartografia, che nel titolo di “Isolari” giunge a dichiararsi è la continua rappresentazione di frammenti temporali che spazializzati risultano quali veri e propri comprensòri. Lo specchio infranto cartaceo rifletterebbe allora non più l’unità perduta ma alcuni momenti e luoghi dello “spirito” il cui significato si esplica mediante la legge
articolare e i fenomeni di rifrazione in esso contenuti.
Questo approccio geografico (che restituisce all’opera la sua funzione di sismografo) è alla resa dei conti il metodo unico e non alternativo di rapportarmi all’arte. Ed è perché siamo alla fine della storia e da qualsivoglia lettura filologica dell’opera che possiamo rendere tutto alla superficie e al disincanto.
Ora immagini lungamente trattenute in un credo, piegate a significare quanto di più altero, tornano a noi per dirci che siamo noi quell’alterità verso cui ora, stanno marciando, noi l’Oriente,noi l’ornamento.
Io cedo alla tentazione del pensiero. Niente di elitario in questa che continua ad apparirmi nei modi come una Bibliae pauperum in cui tutto un’apparato gestuale,figurale viene ricondotto al suo creatore di sempre che divenuto consapevole del suo monologo, ravvisa all’intorno non uno scempio ma una panoplia che sia come un maltolto. Il mio diviene allora un impegno a restituire non ciò che sarebbe inconoscibile quanto piuttosto ciò che essendo stato diversamente destinato appare come irriconoscibile.

S.V.: Per definizione il mito non è che la narrazione fantastica di eventi per spiegare l’origine incomprensibile di altri eventi.. Per te, nel contesto dell’arte figurativa, che connotati va ad assumare il mito?

S.P.: ( risposta contenuta nel papiro sopra…………..)

S.V.: Guardando alcune tue opere mi è venuto alla mente Jung, con la sua teoria dell’inconscio collettivo.
Tu ritieni che la psicologia abbia influenzato la tua arte?

S.P.: La psicologia e più estesamente tutto quel che riguarda l’uomo senza mai esaurirlo, senza mai definitivamente restituirlo alla sua totalità, mi interessa.
Tutto l’edificio innalzato per consumare l’attesa è mirabile. E l’uomo ha costruito tanto. E’ commovente.
Jung ha avuto il suo tempo nel mio pensiero ma oggi lo rileggerei con Warburg, per vedere non solo quel che torna ad affiancarci dopo silenzi carsici ma anche per sciogliere il bacile con i suoi archetipi nella non forma della fonte e nella fluidità che soggiace ad ogni primeva intuizione della forma.
Dobbiamo sì sempre confrontarci con tutto quanto da lontano ci raggiunge capace di contegno come di contenuti, ma non possiamo eludere tutto quel che ha resistito ad ogni declinazione formale.

www.simonepellegrini.com

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